Il discorso del Monte Rushmore e il ritorno dell’ideologia americana

A seguito della morte di George Floyd, negli Usa si susseguono prese di posizione sempre più ideologiche di attori mainstream, fra cui il Partito Democratico, che cavalcano le proteste e ne vezzeggiano i protagonisti. Questa offensiva politica e ideologica potrebbe incidere sulle elezioni presidenziali Usa e, quindi, sugli politici internazionali. Il discorso del Monte Rushmore di Trump è il segnale che il presidente Usa ha raccolto il guanto di sfida.

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Trump Rushmore

Le proteste seguite alla morte di George Floyd hanno l’aria di un game changer politico. E non solo per gli Stati Uniti. Come si è già potuto vedere, oltre a estendersi ad altri paesi – purtroppo anche in forma violenta – esse continuano a dettare l’agenda politica e mediatica internazionale.Trump Rushmore

Si susseguono, inoltre, prese di posizione sempre più ideologiche di ambienti “mainstream”, come università, media e imprese, soggetti politici, che cavalcano le proteste e ne vezzeggiano i protagonisti.

Soprattutto, nella misura in cui potrebbero incidere sulle prossime elezioni presidenziali Usa, le proteste potrebbero riverberarsi sugli equilibri politici internazionali. In questo quadro, il discorso del Monte Rushmore di Trump è il segnale che il presidente Usa ha raccolto il guanto di sfida.

Morte di George Floyd, una macchia e una sfida per le istituzioni americane

La brutalità della polizia di Minneapolis che ha causato la morte di George Floyd è indegna di una democrazia. Da un lato, sotto il profilo penale la responsabilità andrà accertata e non potrà che essere individuale. Dall’altro, le circostanze del decesso di Floyd costituiscono una macchia per la democrazia americana.

In quest’ultima prospettiva, il caso George Floyd rappresenta una sfida per l’architettura istituzionale statunitense. La capacità delle istituzioni Usa di accertare le responsabilità e di rendere giustizia sarà il metro con cui misurarne lo stato di salute.

Allargando lo sguardo, il modello americano sembra avere anticorpi. Negli Usa, gli agenti di polizia responsabili delle brutalità inflitte a Floyd sono stati arrestati, saranno processati e rischiano pene severe. Di converso, a Hong Kong i poliziotti che in questi stessi giorni si rendono responsabili di gravissime violazioni dei diritti umani agiscono su formale mandato del governo della Cina. Che, per inciso, alcuni in Italia hanno scelto come modello.

Stati Uniti, avvisaglie di una guerra civile razziale

Negli Stati Uniti, le proteste sono state fin dall’inizio affiancate da fatti gravissimi. Omicidi, violenze, saccheggi e devastazioni. A ben vedere, tuttavia, le circostanze che colpiscono sono altre.

Primo, da subito le proteste hanno assunto la forma di una strisciante guerra civile razziale. Nel mirino dei violenti non sono finite solo le istituzioni, come la polizia, ma anche cittadini o gruppi di cittadini, non di rado aggrediti in ragione dell’appartenenza a specifici gruppi etnici, e le loro proprietà. Un attacco che non ha risparmiato gli italoamericani, come dimostrano gli abbattimenti di statue di Cristoforo Colombo, simbolo degli italoamericani che ogni 12 ottobre, giorno della scoperta del Nuovo Mondo, celebrano il Columbus Day.

Questa guerra etnica a bassa intensità è alimentata da una narrativa basata su una lettura parziale della storia e su un’analisi ideologica improntata al marxismo culturale. Una narrativa divisiva e liberticida che sconfina nella psicosi, generatrice di rancore, odio, surreali richieste di riparazioni e risarcimenti e di un orwelliano tentativo di riscrivere la storia. Il risultato? Violenze. Saccheggi. Intimidazioni. Clima da caccia alle streghe sulla stampa e sui social media. Licenziamenti. Revoche di contratti pubblicitari. Abbattimenti di statue. Ridenominazioni di piazze, strade, edifici pubblici. Cancellazione di corsi universitari. Umilianti richieste di sottomissione, come il “rito” della genuflessione, cui immancabilmente non si è sottratto qualche politico nostrano in cerca di visibilità. Oggi si chiama “Cancel Culture“. Un tempo era nota come iconoclastia.

Il mondo mainstream alimenta la divisiva narrativa sul “razzismo sistemico”

Secondo, non sono solo movimenti estremisti come Black Lives Matter o gruppuscoli terroristici come Antifa a alimentare il clima da guerra civile. Piuttosto, la fonte di questa narrativa divisiva va ricercata negli ambienti mainstream: università, media e – persino – le grandi corporation.

Da decenni, gli atenei americani sono terreno di conquista del marxismo culturale, la cui dottrina si insinua in tutti i rami dell’insegnamento e in tutti i dipartimenti. Di qui l’emarginazione dei docenti non allineati e l’oscuramento delle tesi sgradite. E anche il frutto velenoso del politicamente corretto, che altro non è che un esperimento psichico volto a stimolare forme di autocensura di massa.

I media già nel 2016 avevano in massa scommesso contro Trump. Oggi, vedono nelle proteste un’opportunità per indebolire il presidente uscente.

Oltre che a ragioni di marketing, la scelta di campo delle corporation risponde a esigenze di politica aziendale. Anche se vantano una forte mobilità sociale, gli Usa fanno registrare divari salariali che in altri paesi avanzati sarebbero inaccettabili. In quest’ottica, la lotta al razzismo permette alle imprese di costruirsi a buon mercato una “reputation” da spendere nell’eventualità di cause giudiziarie in materia di diritti civili, che negli Usa possono portare a condanne milionarie.

Anche il Partito Democratico soffia sul fuoco

Terzo, anche il Partito Democratico ha scelto di strumentalizzare il caso Floyd in chiave elettorale, sposando la “Cancel Culture”. Una spiegazione potrebbe risiedere nella circostanza che Biden è un candidato debole. Non potendo “vendere Biden” agli elettori, gli spin doctors democratici starebbero “vendendo paura“. Questa scelta del Partito dell’Asinello di cavalcare il tema del razzismo non è senza sprezzo della storia e del ridicolo.

Innanzi tutto, il Partito Democratico è sempre stato il riferimento degli schiavisti degli Stati del Sud, di Jim Crow e del Ku Klux Klan. Tradizionalmente il portabandiera dell’abolizionismo era, sin dall’epoca di Lincoln, il Partito Repubblicano.

Inoltre, è il Partito Democratico a guidare gli Stati e le città teatro delle proteste più violente. Ciò che solleva più di una domanda circa le responsabilità politiche del presunto “razzismo sistemico”.

Infine, negli Usa la competenza in materia di pubblica sicurezza è delle autorità locali, non di quelle federali. Pertanto, nei numerosi centri amministrati dal Partito Democratico questo gestisce anche la polizia “razzista”: Minneapolis, dove è stato ucciso Floyd, New York, Washington D.C. o Seattle, solo per fare qualche esempio.

Le elezioni presidenziali Usa 2020 tornano in bilico

Le proteste seguite alla morte di Floyd potrebbero avere importanti conseguenze politiche. Se fino a poco tempo fa l’esito delle elezioni presidenziali del novembre 2020 era scontato, ora Trump gioca una partita sul filo del rasoio.

Da un lato, l’inquilino della Casa Bianca deve farsi garante di legge e ordine. È, la sua, una posizione delicata. Innanzi tutto, la sua capacità di azione è limitata dal fatto che negli Usa la competenza in materia di pubblica sicurezza è delle autorità locali, non dell’amministrazione presidenziale. Inoltre, l’esasperazione di parte della cittadinanza lascia alla Casa Bianca un margine di errore sottilissimo.

La ripresa economica, un fattore chiave delle presidenziali Usa

Dall’altro, Trump deve governare una congiuntura economica difficile. Nondimeno, dopo un crollo senza precedenti causa lockdown, l’economia Usa dà già segnali di forte vitalità. Una volta rientrate le proteste, ancora una volta l’economia potrebbe rivelarsi la chiave delle presidenziali. Più rapida e completa sarà la ripresa, più Trump potrà sperare in una conferma. Meno lo sarà, più cresceranno le possibilità dello sfidante Joe Biden di strappare una vittoria che a inizio 2020 sembrava fantapolitica.

Il ruolo cruciale dell’economia nella corsa alla Casa Bianca e la circostanza che proprio sui dossier economici l’elettorato sembra riporre più fiducia in Trump che in Biden concorrono a spiegare perché il Partito Democratico e la galassia mainstream continuano a insistere sul razzismo. Si tratta di una scelta ideologica volta a monopolizzare l’agenda elettorale.

Fallita la carta Russiagate, per farlo il Partito Democratico ha sposato una “rivoluzione culturale”, che orwellianamente si propone di cancellare la storia e i valori degli Stati Uniti per scrivere una nuova storia e imporre i nuovi valori del politicamente corretto. Tuttavia, che questa partita sia senza esclusione di colpi non deve sorprendere: la posta in gioco è la presidenza della prima potenza mondiale.

Discorso del Monte Rushmore, lo scontro per la Casa Bianca diventa ideologico

Trump ha scelto di raccogliere questo guanto di sfida, anche e soprattutto sul piano ideologico. È in questo senso che va letto il discorso del Monte Rushmore di Trump del 4 luglio. Il presidente evoca un’America sotto attacco: “la nostra nazione sta vivendo una spietata campagna per spazzare via la nostra storia, diffamare i nostri eroi, cancellare i nostri valori e indottrinare i nostri bambini”. Un attacco portato da un nuovo “totalitarismo”, completamente “estraneo ai valori e alla cultura americani”. E indica espressamente matrice politica e obiettivo dell’attacco: “questa rivoluzione culturale di sinistra è progettata per rovesciare la Rivoluzione Americana”.

Per Trump occorre dunque reagire. Da un lato, riafferma i valori fondanti degli Stati Uniti d’America e la difesa dei Padri Fondatori e degli eroi nazionali. Dall’altro, con tono da Commander in chief fa una vera e propria dichiarazione di guerra ideologica a chi ha messo sotto attacco i valori americani, in primis la libertà: “questo attacco alla nostra libertà, la nostra magnifica libertà, deve essere fermato, e sarà fermato molto rapidamente”.

Che la guerra lanciata da Trump abbia un marcato profilo ideologico è rivelato anche da un altro aspetto del discorso del Monte Rushmore: la chiusura a ogni compromesso. Non si scende a compromesso con la violenza, con l’intimidazione, con chi minaccia la democrazia e la libertà. Per quelli si applica la legge: “sto dispiegando le forze dell’ordine federali per proteggere i nostri monumenti, arrestare i rivoltosi e incriminare i trasgressori”.

Le critiche dei media mainstream dimostrano che Trump ha centrato il bersaglio

Come prevedibile, la stampa mainstream non ha gradito il discorso del Monte Rushmore. Tuttavia, le critiche appaiono confuse e strumentali. Assomigliano più al verso di dolore di un lottatore che ha ricevuto un colpo ben assestato che non a una rigorosa analisi.

Con ogni probabilità, questa reazione dei media dimostra che la lettura politica di Trump è corretta. Del resto, è poco credibile sostenere che il discorso del Monte Rushmore sarebbe “divisivo” quando in sostanza afferma che non saranno tollerati attacchi alle libertà americane e all’unità della nazione.

Il ritorno dell’ideologia americana: libertà e unità contro tribalismo

Con il discorso del Monte Rushmore, Trump chiama a raccolta i cittadini americani per opporsi a una pseudocultura che ha al suo cuore la “identity politics“. Nell’analisi e nella prassi della politica dell’identità l’appartenenza a un gruppo fa premio su ogni altro parametro. Si è definiti in base a etnia, razza, sesso, religione, orientamento sessuale. E, in base a una lettura ideologica della storia, si stabilisce una gerarchia delle sofferenze e, quindi, delle colpe e delle riparazioni. Secondo questa delirante ideologia, i bianchi sono sempre “intrinsecamente razzisti” e quindi non hanno diritto di parola. Anzi, andrebbero “cancellati“. Una concezione della storia, questa, basata sul principio del clan e sull’idea che la responsabilità sia collettiva e ereditaria. In altri termini, un’ideologia tribale. L’esatto contrario della cultura occidentale, fondata sul concetto di cittadino e sulla responsabilità individuale – e quindi non trasmissibile.

Trump sembra aver compreso la portata profonda di questa sfida che, in ultima analisi, è una minaccia all’unità degli Stati Uniti, che sono una nazione multietnica. Visto sotto questo prisma, infatti, il tribalismo del politicamente corretto esaspera la conflittualità della società americana, ne acuisce le linee di frattura, ne favorisce la balcanizzazione. “Non dimentichiamolo mai, siamo una famiglia e una nazione”, ha dichiarato al Monte Rushmore. E chiama a sé la maggioranza silenziosa degli americani che hanno a cuore i valori fondanti della loro nazione e non sono caduti preda dell’isteria del politicamente corretto. Se il suo appello ha diversi profili – ideologico, culturale, politico – questi sono tutti riconducibili alla riaffermazione dell’essenza storico-politica americana.

È presto per capire se gli americani risponderanno all’appello del loro presidente. E a maggior ragione è prematuro fare pronostici sull’esito delle prossime presidenziali. Tuttavia, se a novembre gli elettori americani confermeranno Trump alla Casa Bianca, il discorso del Monte Rushmore potrebbe passare alla storia come un momento chiave della storia americana e dell’Occidente.

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