Riceviamo – e volentieri pubblichiamo – un autorevole commento dell’Ambasciatore Marco Carnelos sulle elezioni presidenziali americane, con interessanti e condivisibili valutazioni circa la politica estera Usa.
Caro Direttore,
l’inattività di Diplomazia Italiana negli ultimi mesi mi aveva portato a pensare che qualche forma di intimidazione nei confronti di quest’ultima potesse aver sortito qualche effetto. Essendo tuttavia stato autorevolmente rassicurato circa il contrario, torno quindi a disturbarla per condividere con Lei lo sconcerto che ho provato leggendo il New York Times di venerdì 13 novembre che riporta un articolo con un il seguente titolo: “Election Officials Directly Contradict Trump on Voting System Fraud”. Questo illustra come integerrimi funzionari del Department of the Homeland Security del Governo Federale statunitense abbiano sentito il dovere di smentire il Presidente Trump circa i presunti brogli elettorali che avrebbero scippato a quest’ultimo la vittoria nelle elezioni presidenziali del 3 novembre scorso, come da questi sostenuto da diversi giorni a questa parte. Al punto che quelle appena svoltesi, secondo gli stessi funzionari, sarebbero state tra le più sicure della storia americana.
Non le posso nascondere che ho provato un moto di sollievo ma anche un senso di sconcerto.
Se vince Biden non esistono interferenze elettorali
La notizia conferma che, dopo tutto, la grande democrazia statunitense possiede ancora gli anticorpi per tenere a bada alcune bizzarrie comportamentali dell’attuale inquilino della Casa Bianca. Verrebbe tuttavia da aggiungere, sommessamente, che se poi questa grande democrazia – che non manca ancora occasione per dispensare lezioni in materia al resto dell’umanità – riuscisse anche dotarsi di un sistema elettorale meno contorto e in grado di offrire senza eccessivi dubbi l’esito delle elezioni nel giro di qualche ora, come avviene ormai anche nelle assai meno attrezzate democrazie di qualche paese in via di sviluppo, sarebbe certamente assai più confortante… Per tutti.
L’umanità, infatti, è già caratterizzata da stati ansiogeni elevatissimi, complice anche il Covid. Aggiungervi tempi di attesa che variano da giorni a settimane per sapere chi guiderà la più grande potenza del mondo sembra proprio di pessimo gusto.
Lo sconcerto che tale articolo invece mi sollecita, si centra sulla circostanza che il Governo Federale statunitense, nei quattro anni tumultuosi della gestione Trump, sia riuscito ad approntare un sistema di misure efficacissime che hanno impedito alla perfidia russa di effettuare una nuova interferenza nel contorto e complesso sistema politico statunitense come quella che nel 2016 – secondo la tesi dominante tra il mainstream media Usa e il Partito Democratico – avrebbe portato Donald Trump alla Casa Bianca scippando la vittoria, data all’epoca per scontata, di Hillary Clinton. Un tormentone che, come noto, ci ha accompagnato in tutto il recente quadriennio fino alla vigilia di queste elezioni.
Media Usa, una grave crisi di deontologia
Dopo un’attenzione ossessiva, questo tema cruciale è repentinamente scomparso dalla copertura dei grandi network televisivi, dalla narrativa della grande stampa americana, e, ovviamente, del Partito Democratico. Un’altra grande prova di onestà intellettuale e, soprattutto, un altro grandissimo esempio di deontologia professionale offerto dal giornalismo statunitense.
Caro Direttore,
Lei sa bene come lo scrivente non abbia mai provato alcuna simpatia politica per il Presidente Trump, come testimoniato da diversi miei scritti – peraltro gentilmente ospitati anche dalla sua pubblicazione a conferma della sua pregevole apertura verso voci dissenzienti alla propria linea editoriale.
La politica estera di Trump
Le uniche prese di posizione in politica estera di Trump che hanno registrato il mio plauso sono state:
- la decisione – sabotata dalla sua stessa Amministrazione, come recentemente ammesso dall’Inviato Speciale Usa per la Siria e successivamente della Coalizione contro Isis, Amb. Jim Jeffrey – di ritirare le truppe statunitensi dispiegate (illegalmente) sul territorio siriano dall’Amministrazione Obama;
- Il giudizio impietoso sul fallimento di 20 anni di impegno politico-militare Usa in Medio Oriente, consegnato ad un tweet del 13 Ottobre 2019 che merita ancora una volta di essere citato per intero come una delle dichiarazioni più dure che un Presidente statunitense abbia mai pronunciato sul ruolo del suo Paese nella regione:
“The same people that got us into the Middle East Quicksand, 8 Trillion Dollars and many thousands of lives (and millions of lives when you count the other side), are now fighting to keep us there. Don’t listen to people that haven’t got a clue. They have proven to be inept!”
- La denuncia – ancorché indiretta – del complesso militare industriale statunitense. Quest’ultimo, peraltro, negli ultimi decenni si è evoluto nell’assai più ampio, efficace e condizionante MICIMATT Complex (Military Industrial Congressional Intelligence Media Academia & Think Tank). Trump è il primo Presidente Usa – sei decadi dopo lo storico discorso di addio di Dwight Eisenhower il 17 Gennaio del 1961 – che ha sollevato nuovamente questo tema controverso; ovviamente lo ha fatto nel modo assai più rozzo che lo contraddistingue, asserendo che i militari Usa promuovono le guerre “so that all of those wonderful companies that make the bombs and make the planes and make everything else stay happy.” Un commento peraltro inaccurato dal momento che le ultime evidenze storiche dimostrano come gli attori più prudenti sull’uso della forza da parte degli Stati Uniti – invocato quasi sempre da apprendisti stregoni in abiti civili – siano proprio gli stessi militari statunitensi.
Fatti salvi questi tre aspetti – tutt’altro che marginali – non salverei nulla della politica di colui che si profila come il Presidente uscente degli Stati Uniti, ma ho un difetto insopprimibile, non riesco ad accettare le prese per i fondelli, come quella che sto denunciando con queste righe.
Cosa aspettarsi da Joe Biden
Le confesso invece che istintivamente apprezzo Joe Biden (molto meno alcune sue decisioni controverse del passato) per le sue umili origini e per le tragedie personali che hanno costellato la sua vita (ha perso una moglie e due figli). Mi auguro che queste abbiano sviluppato in lui quel senso di empatia che abbiamo visto essere così visibilmente assente nel suo predecessore. Il mio auspicio è che questa empatia possa guidarlo al meglio nelle difficili scelte che sarà chiamato a fare prossimamente.
Le confesso altresì che apprezzo molto meno alcuni collaboratori che si apprestano a coadiuvarlo, e che, quindi, potrebbero influenzarne le scelte. Un eterogeneo gruppo di reduci delle Amministrazioni Clinton e Obama (peraltro idolatrati in Europa) che ancora ritengono che l’America sia eccezionale. Che il tipo di ordine liberale internazionale da quest’ultima costruito negli ultimi decenni sia ancora l’unico – indiscutibile – strumento per assicurare pace, crescita, sviluppo, equità e giustizia sociale. E che restano convinti che coloro che non dovessero sottoscriverlo in pieno siano privi di legittimità e debbano essere isolati e rovesciati. Un assembramento che, ahinoi, ritiene ancora che il mondo – parafrasando John Quincy Adams – sia popolato da “mostri da distruggere”, e centinaia di milioni di persone si sveglino ogni mattina intenzionati a mettere a repentaglio la sicurezza degli Stati Uniti, quando l’evidenza empirica dimostra – non mi stancherò mai di ripeterlo – la principale minaccia alla sicurezza di questo Paese è situata al suo interno.
E dalla sua Amministrazione
Un team accomunato dalla convinzione che gli unici strumenti efficaci per promuovere la propria visione e il ruolo dell’America nel mondo siano – come abbiamo visto negli ultimi trenta anni – rappresentati dal sequenziale uso di sanzioni e interventi militari piuttosto che il buon esempio e l’aderenza ai valori conclamati.
La speranza, seppur tenue, è che l’empatia e il buon senso che ci sforziamo di attribuire a Biden emergano, e, soprattutto, finiranno per avere la meglio sui suoi collaboratori e, chissà, anche sull’inquietante complesso del MICIMATT.