Palermo: la Libia alla ricerca della stabilità perduta

A sette anni dalla caduta di Gheddafi, la Libia fatica a ritrovare la stabilità perduta. In prima linea alla conferenza di Palermo, l'Italia deve favorire una stabilizzazione che concili le opposte fazioni e argini l'ingerenza di attori esterni.

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libia contePer tentare di avviare la stabilizzazione della Libia, l’Italia ha promosso la conferenza internazionale di Palermo. A sette anni dalla caduta di Muammar Gheddafi, il paese nordafricano continua a non trovare un assetto politico stabile. Nella sua attività di mediazione, il governo Conte dovrà fare i conti con la contrapposizione fra fazioni e l’ingerenza di attori esterni. Tutti fattori che rendono difficile trovare soluzioni condivise.

È senz’altro positivo che con la conferenza di Palermo l’Italia abbia recuperato l’iniziativa politica sulla Libiaarginando il pericoloso attivismo della Francia di Macron. Tuttavia, per Diplomazia Italiana è prematuro fare valutazioni circa l’esito della conferenza. I risultati di Palermo dovranno essere valutati alla luce della stabilità che la Libia – si auspica – avrà ritrovato. Servirà dunque tempo.

Piuttosto, tenuto conto dei grandi interessi italiani in Libia e dei riflessi dell’instabilità del paese sugli equilibri nel Mediterraneo, si offre di seguito un inquadramento del problema libico.

La conferenza di Palermo deve risolvere un complesso rebus

Il 1 settembre 2009, la Gran Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista festeggiava in pompa magna il suo 40mo anniversario. Alle celebrazioni partecipavano numerosi ospiti d’onore. Tanti i capi di Stato e di governo provenienti dal mondo intero, fra cui Silvio Berlusconi a testimonianza dello speciale rapporto italo-libico.

Nel 2007, il regime libico era stato riabilitato dalla comunità internazionale, in particolare da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia.

Un lungo percorso politico aveva portato la Libia a ripudiare ufficialmente il terrorismo internazionale, di cui era stata per decenni uno dei principali sponsor. La comunità internazionale aveva imputato a Tripoli atti gravissimi: abbattimento del volo Pan Am 103 sopra Lockerbie; abbattimento del volo Uta 772 sul deserto del Ténéré; sostegno all’Ira, all’Eta e a diverse organizzazioni terroristiche arabe; assassini mirati di dissidenti libici in Europa.

Dopo aver risarcito le vittime e le loro famiglie e consegnato i responsabili alla giustizia, nel 2009 la Gran Giamahiria appariva più stabile che mai. Tutto sembrava indicare che il ritorno a pieno titolo della Libia nella comunità internazionale avrebbe cristallizzato il potere di Gheddafi e del suo clan.

Questo scenario di apparente immutabilità non faceva i conti con l’irruzione in scena delle Primavere Arabe.

2011, l’intervento militare occidentale

Nel febbraio 2011 l’onda d’urto del crollo dei regimi di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto provoca un nuovo sollevamento delle province ostili al governo di Tripoli, in particolare nell’area di Bengasi, in Cirenaica.

La Libia sprofonda rapidamente nella guerra civile. Le forze lealiste, in prevalenza della Tripolitania, e i ribelli di Bengasi, provenienti dalla Cirenaica a ovest, si affrontano in cruenti scontri.

Mentre da oltre un mese in Bahrain la polizia spara sui dimostranti sciiti nell’indifferenza della comunità internazionale, il 19 marzo 2011 Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna intervengono militarmente in Libia. Ha inizio un tragico conflitto che si concluderà con la morte di Gheddafi e di suo figlio Mutassim il 20 ottobre dello stesso anno, in una spirale di brutalità e vendette.

La base legale dell’intervento militare è la risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza Onu che autorizza la costituzione di una no fly zone nei cieli libici per proteggere la popolazione civile. Il 24 marzo la Nato prende il controllo della no fly zone.

L’intervento occidentale rappresenta una vera e propria irruzione in uno Stato dalla fragile unità, che ne sconvolge gli equilibri politici. La Libia non può definirsi uno Stato-nazione. Essa si costituisce di tre province, Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, che storicamente si sono sempre opposte l’una all’altra.

Geopolitica della Libia: un puzzle complesso

L’unità della Libia si è costruita sull’ideologia della rivoluzione di Gheddafi del 1969, che ha dato vita alla Gran Giamahiria. Tuttavia, la rivoluzione di Gheddafi non ha mai cancellato le logiche tribali.

La geopolitica libica è quella di circa 140 tribù. Di queste, solo una trentina ha un reale peso politico. I clan si dividono fra le due province costiere tradizionalmente antagoniste, Tripolitania e Cirenaica, che ospitano la maggior parte della popolazione del paese. L’immensa provincia desertica del Fezzan è poco popolata.

La Cirenaica guarda al vicino Egitto, che con discrezione sostiene da sempre le fazioni ostili a Tripoli, e in generale al Medio Oriente. La Tripolitania, invece, guarda al Maghreb, il che spiega il discreto sostegno che l’Algeria ha sempre fornito al regime di Gheddafi.

La Cirenaica è la culla del moderno Stato libico, fondato nel 1951 da una monarchia basata sulla confraternita religiosa dei Senussi. L’ordine, che si ispira ad un Islam Sufi rigoroso e conservatore, fu cacciato da La Mecca dalla pressione wahabita e si stabilì nel 1843 nella città libica di Beida. I Senussi, che ospitano nel loro seno le correnti jihadiste più radicali del paese, hanno sempre rappresentato un contropotere sotterraneo ostile alla spinta modernizzatrice e laicizzante della rivoluzione di Gheddafi.

La realtà libica è tribale, non nazionale

Gheddafi, esponente della tribù tripolitana dei Qadhadhfa, berberi arabizzati dell’area di Sirte, rovescia il re Idris I nel 1969. Essendo il suo clan poco numeroso, Gheddafi intreccia alleanze con le grandi tribù dell’ovest della Libia. Fra questi, i potenti Warfalla di Tripolitania, che con un milione di membri costituiscono circa 1/6 della popolazione libica, e i Megarha del Fezzan.

Gli altri clan della Tripolitania, più piccoli e meno vicini alla confederazione tribale pro-Gheddafi, saranno regolarmente tentati da velleità di sedizione. Tuttavia, sono le tribù della Cirenaica a costituire la principale minaccia per il regime di Gheddafi.

La principale è la tribù dei Zuwayya, la più importante del paese, protettrice di importanti campi petroliferi, quali Sarir e Messla. Alcuni dei clan di Cirenaica sono i custodi dell’Islam libico più radicale: i Misrata, molto forti a Bengasi e a Derna; gli Al-Awaqir, di Beida, roccaforte dei Senussi.

Il 20 febbraio 2011, quando durante una trasmissione televisiva Saif al-Islam Gheddafi, uno dei figli del rais, minaccia un bagno di sangue, ha in realtà nel mirino proprio l’autoproclamatosi Emirato islamico di Beida.

Le dichiarazioni di Saif al-Islam non saranno correttamente riportate dai media internazionali e serviranno all’asse Washington-Londra-Parigi per giustificare l’intervento militare con l’opinione pubblica occidentale.

Cultura tribale e disinformazione occidentale

In realtà, Saif al-Islam non fa che agire, esattamente come nello stesso momento il presidente dello Yemen, Ali Abdullah Saleh, che pratica la punizione collettiva delle tribù ribelli, una tradizione tribale e beduina. Una spiegazione, questa, che i paesi occidentali si guardano bene dal diffondere, perché è esattamente così che tutti i loro alleati del Golfo Persico reprimono i dissidenti.

La stessa attività di disinformazione occidentale diventa ossessiva sui presunti mercenari neri di Gheddafi. Fatti salvi alcuni mercenari del Mali, i miliziani di cui si parla sono in realtà dei Toubou, un turbolento clan del deserto sudorientale vicino alle montagne del Tibesti. Si tratta, dunque, di cittadini libici.

Certo, i Toubou sono pagati dal regime di Gheddafi. Ma lo sono esattamente come tutti gli altri clan che si sono schierati per uno o per l’altro campo, perché nella tradizione beduina araba la fedeltà va pagata.

Per completare il quadro, bisogna considerare i Tuareg. Questi ultimi sono berberi puri che non si mescolano alle popolazioni arabizzate della costa e conducono una vita nomadica nei pressi della frontiera con l’Algeria. I Tuareg hanno recuperato parte delle armi saccheggiate negli arsenali dell’esercito regolare libico e le rivendono a mercanti d’armi e terroristi, senza fare distinzione di campo.

2011, va in pezzi l’equilibrio tribale che aveva retto l’assetto di potere libico

L’odierna realtà della Libia, un paese che conta poco più di 7 milioni di abitanti, è la frantumazione dell’equilibrio tribale che Gheddafi aveva saputo costruire e mantenere grazie alla manna petrolifera.

Di conseguenza, senza l’avvento di una figura autorevole e sostenuta dalla comunità internazionale in grado di costruire un assetto politico condiviso, non si può escludere che la guerra civile che cova sotto le ceneri possa nuovamente infiammarsi.

La cornice libica è ulteriormente complicata da altri fattori. Primo: come è accaduto nel 2003 in Iraq, gli arsenali e i depositi dell’esercito regolare sono stati saccheggiati, ciò che ha favorito la diffusione delle armi fra la popolazione. Secondo: l’Algeria e l’Egitto non mancheranno di voler giocare un ruolo nella Libia post-Gheddafi, il che complica ulteriormente l’equazione politica.

Gli interessi petroliferi spiegano l’intervento occidentale

A ben vedere, sono proprio gli interessi petroliferi, dissimulati dietro la maschera del dovere di ingerenza umanitaria e democratica, una delle cause profonde dell’intervento militare occidentale in Libia.

La fine dell’embargo nel 2003 e il forte afflusso di investimenti occidentali in Libia avevano fatto dimenticare al pubblico internazionale il ruolo centrale che Gheddafi aveva avuto nello scoppio della crisi petrolifera del 1973 e la politica di nazionalizzazioni di cui si era fatto fautore.

I governi e le grandi compagnie petrolifere occidentali hanno però la memoria lunga. Soprattutto, non dimenticano i loro nemici. Il nazionalismo petrolifero di paesi quali la Russia, l’Iran, il Venezuela, l’Ecuador e la Libia, rappresenta il nemico assoluto delle majors occidentali, messe ormai in ombra dai grandi campioni nazionali dei paesi petroliferi: Petrobras in Brasile, Pdvsa in Venezuela, Gazprom e Rosneft in Russia.

Gli idrocarburi libici, alternativa agli idrocarburi russi

Per l’Europa, la Libia rappresenta un fornitore di idrocarburi alternativo alla Russia. La Libia è il settimo paese al mondo per riserve petrolifere. Il petrolio libico è di alta qualità e ha un basso costo di estrazione. I giacimenti di Tripoli sono vicini ai mercati europei, il che presenta evidenti vantaggi in termini di costi di trasporto.

Di converso, l’economia libica è integralmente dipendente dal settore degli idrocarburi. Petrolio e gas costituiscono il 98% delle esportazioni di Tripoli. Pertanto, shock nel comparto degli idrocarburi, come ad esempio un decremento dei prezzi, hanno gravi ripercussioni sull’economia e sulla società libiche. Inoltre, la Libia importa circa il 75% del suo fabbisogno alimentare, ciò che somma debolezza a debolezza.

A ciascuno dei perni geopolitici che sono Tripolitania e Cirenaica corrispondono importanti giacimenti. La Tripolitania estrae greggio dal campo Elephant nel Fezzan e lo trasporta a Tripoli. Sempre la Tripolitania controlla il giacimento onshore di Wafa e quello offshore di Bahr Es Salam, la cui produzione viene trasportata in Italia con il gasdotto Greenstream. Il greggio degli immensi campi della Cirenaica, che costituisce la maggior parte della produzione del paese, alimenta la strategica raffineria di Ras Lanuf.

Sotto Gheddafi, l’Eni, che già operava in Libia dal 1959, era diventato il principale operatore straniero di greggio e gas libici. Dopo un picco fra il 2007 e il 2008, la dipendenza dell’Italia dall’energia della Libia è crollata. Nondimeno, ancora oggi circa il 7% del petrolio e il il 12% del gas consumato in Italia è di provenienza libica.

Gli obiettivi di Francia e Gran Bretagna in Libia sono ostili all’Italia

Questo quadro complesso, dovuto alla lunga fase di frammentazione politica e di instabilità del dopo-Gheddafi, è reso più intricato dalle ingerenze di potenze esterne.

Da un lato, FranciaGran Bretagna, che hanno lo scopo di riorganizzare a loro vantaggio il settore libico dell’energia. Dall’altro, l’Italia, che deve puntellare le sue storiche posizioni minacciate proprio dall’aggressività di Parigi e Londra.

Se il baricentro del potere libico si spostasse da ovest a est, dalla Tripolitania alla Cirenaica, Francia e Gran Bretagna conseguirebbero l’obiettivo strategico di disarticolare il dispositivo di alleanze locali dell’Italia.

Francia, governare per mezzo del caos

Alla luce di questa prospettiva, si spiegano diverse iniziative di Parigi. La prima, il sostegno di Emmanuel Macron al ras della Cirenaica, Haftar, al prezzo di rompere l’unità della comunità internazionale, che sostiene il primo ministro Serraj. La seconda, i ripetuti tentativi di acquisire l’iniziativa politica in Libia, estromettendo l’Italia. La terza, il sistematico boicottaggio dell’impegno italiano.

Uno spregiudicato governare per mezzo del caos. Un modo incivile di condurre la politica estera, purtroppo sempre più diffusamente praticato in questo inizio di XXI secolo.

È, questa, la naturale prosecuzione di una politica francese che aveva visto Sarkozy primo sponsor dell’intervento militare nel 2011. Un intervento che era interesse dell’Italia scongiurare e per il quale esponenti politici italiani portano gravi responsabilità.

In questo quadro, l’Italia gioca una partita delicata dagli esiti molto incerti. Una cosa è sicura: per riuscire a conservare le posizioni che aveva all’epoca di Gheddafi, Roma non dovrà sbagliare nessuna mossa, a cominciare da Palermo.

È interesse dell’Italia che la Libia torni ad essere una diga contro l’immigrazione

La fine del regime di Gheddafi è stato anche il crollo di una diga all’immigrazione. Certo, lo strumento era imperfetto. Periodicamente il regime utilizzava i flussi migratori per fare pressione sull’Europa. Inoltre, il trattamento che riservava agli immigrati non era in linea con gli standard europei.

Nondimeno, è un fatto che il sistema teneva e che la Libia di Gheddafi fungeva da argine ai traffici di esseri umani.

La crisi libica ha fatto esplodere gravi tensioni fra i paesi dell’Unione europea sul problema dell’immigrazione. L’Italia di Monti, Letta e Renzi rilasciava titoli di viaggio per consentire agli immigrati di raggiungere altri paesi dell’area Schengen, il che ha provocato forti divergenze con vari paesi, fra cui Francia e Austria. Dal canto loro, davanti alla crisi migratoria l’Unione europea e i suoi paesi membri hanno lasciato l’Italia sola.

Oggi l’immigrazione, in aggiunta alle tensioni monetarie nate dalla crisi del processo di globalizzazione, sta sempre più diventando un fattore di riscoperta della sovranità nazionale a scapito del disegno di integrazione europea.

Da un lato, quindi, l’Italia ha un forte interesse a stabilizzare la Libia anche in chiave di contrasto all’immigrazione. L’azione del governo Conte e del ministro Salvini contro le Ong che traghettavano clandestini ha avuto sostanziale successo. Per rendere questo risultato più completo è oggi necessario far sì che Libia torni ad essere la diga che era.

Dall’altro, un’Unione europea ben governata avrebbe tutto l’interesse a sostenere l’Italia e la conferenza di Palermo. Laddove in Libia tornasse la stabilità, le ondate migratorie finirebbero per inaridirsi, ciò che contribuirebbe all’abbassamento della tensione fra i paesi del Vecchio Continente. Che poi l’Unione europea sia capace di giocare questo autorevole ruolo resta tutto da vedere.

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