G20 di Buenos Aires, vince Trump

Il documento finale del G20 di Buenos Aires non menziona il protezionismo e il Patto globale Onu sull'immigrazione. Se questo è un successo di Trump, alcuni dei suoi effetti potrebbero essere positivi per l'Italia.

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G20 Buenos Aires Trump

G20 Buenos Aires TrumpIl G20 di Buenos Aires è terminato con un risultato non del tutto previsto. Il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, porta a casa un duplice successo. Nel documento finale del G20, infatti, non figurano la condanna dei dazi e ogni riferimento al Patto globale Onu sull’immigrazione.

Il risultato a prima vista sembrerebbe formale. In realtà non è così. A differenza di quanto accade di prassi, questa volta i Grandi del mondo non erano atterrati a Buenos Aires con sottobraccio un documento da ratificare. Il lavoro di funzionari e sherpa nei mesi precedenti non era riuscito a sbrogliare i nodi sollevati da Washington, che minacciava di far saltare il banco.

G20 di Buenos Aires, gli Stati Uniti centrano i loro obiettivi

In particolare, per bocca del falco John Bolton, consigliere per la Sicurezza Nazionale, gli Stati Uniti avevano posto precise condizioni per approvare il documento finale.

  1. No a riferimenti al libero commercio senza un espresso richiamo all’esigenza che gli scambi siano “equi”.
  2. Nessun cenno all’esigenza di rinforzare le istituzioni commerciali internazionali, come il Wto.
  3. Nessuna menzione dell’Accordo di Parigi sul clima, da cui gli Usa si sono ritirati.

In altri termini, il G20 di Buenos Aires era a concreto rischio di fallimento. E che la posizione Usa non fosse un bluff era desumibile dall’insuccesso del G7 di La Malbaie, in Canada, arenatosi lo scorso giugno fra contrasti e polemiche che hanno visto protagonisti Trump, il padrone di casa Trudeau, Macron e Merkel.

Il dato che le tre condizioni poste da Washington siano state accolte nel documento finale costituisce un indubbio successo della diplomazia di Trump.

Dal documento finale del G20 di Buenos Aires scompare il Global compact sull’immigrazione

La vittoria di Trump è resa più rotonda dalla circostanza che – sempre su pressione degli Stati Uniti e dell’Australia – il documento finale del G20 di Buenos Aires non contiene riferimenti al Patto globale Onu sull’immigrazione.

Questa omissione costituisce un altro punto a vantaggio degli Usa, che non avevano partecipato ai negoziati che hanno prodotto il progetto di Global compact che sarà discusso alla conferenza di Marrakech il 10-11 dicembre 2018.

A ben vedere, la formulazione del documento finale rinforza anche la posizione politica dell’Italia e di tutti i paesi che si stanno ritirando dal Global compact.

Il G20 conferma che sul Global compact sull’immigrazione l’Italia non è isolata

Sull’immigrazione, quindi, dal G20 emerge un dato politico: anche se ha scelto di non aderire al Patto globale sull’immigrazione l’Italia non è isolata. Un numero crescente di paesi sta vagliando con crescente attenzione le gravi implicazioni del Global compact. Non è quindi da escludere che prima di Marrakech si verifichino altre defezioni eccellenti.

Il mancato inserimento del Patto globale sull’immigrazione nel documento finale del G20 di Buenos Aires ha per il governo Conte e per la Lega di Matteo Salvini anche un’indubbia utilità in chiave di politica interna.

Adesso sul Global compact il governo Conte deve tenere la barra dritta

La scelta di portare in Parlamento il dibattito sul Global Compact è da considerarsi corretta, viste le implicazioni politiche del Patto, come ha ben sottolineato il Presidente del Consiglio Conte.

Superato lo shock iniziale per il colpo battuto da Salvini e dalla Lega, adesso le forze legate ai circoli mondialisti cercano di riprendere l’iniziativa. Negli ultimi giorni – un po’ fuori tempo massimo, viene da sorridere – è infatti cominciata una propaganda politico-mediatica per sostenere che il Global compact conviene all’Italia.

Gli argomenti di questa propaganda non smentiscono le gravi criticità del Patto globale. Anzi, chi oggi sostiene il Global Compact si guarda bene dal rispondere nel merito.

Per la Costituzione spetta al governo determinare l’indirizzo politico

Il tema del Global compact è inestricabilmente legato al concetto di sovranità. L’art. 1 della Costituzione sancisce che la sovranità appartiene al popolo, che sull’immigrazione si è espresso in modo chiaro alle elezioni dello scorso 4 marzo.

Vero è che l’art. 11 della Carta prevede che l’Italia consenta “in condizioni di parità con gli altri Stati alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni”. Alcuni vorrebbero individuare in questa disposizione la base giuridica per aderire al Global compact.

La Costituzione italiana e la sovranità

Si tratta di una tesi sbagliata. Infatti, la Costituzione consente limitazioni della sovranità “in condizioni di parità con gli altri Stati”. Ciò sta a significare una parità effettuale, non formale. In altri termini, non è sufficiente che altri Stati insieme all’Italia sottoscrivano un documento, sia esso un impegno politico o un vincolo giuridico.

Per fare un esempio, se Italia e Norvegia firmassero il Global compact non ci sarebbero “condizioni di parità” effettuale fra i due paesi. L’Italia è la frontiera meridionale del continente europeo. È il naturale punto di arrivo dei flussi migratori dall’Africa, dal Maghreb, dal Medio Oriente e in misura minore dall’Asia. A meridione, invece, la Norvegia ha il Baltico e la Danimarca. A est la Svezia. A ovest, il Mare del Nord.

In altri termini, come diceva Napoleone: “La politique d’un État est dans sa géographie”.

È dunque evidente che l’impatto del Global compact non è uguale per tutti i firmatari. E che impegni politici di questa portata devono prevedere dei meccanismi di compensazione – questi sì – vincolanti. Diversamente, i paesi frontalieri, che fungono da porta d’accesso, sarebbero chiamati a farsi carico degli oneri maggiori legati all’immigrazione, privandosi però del potere sovrano di governarla.

Usa e Cina stabiliscono una tregua commerciale

Gli incontri a latere del G20 hanno portato altri frutti. I colloqui fra Trump e Xi Jinping hanno portato ad una tregua commerciale fra Stati Uniti e Cina, articolata su due punti:

  1. Washington rinvia l’incremento dei dazi su importazioni per 200 miliardi di dollari di beni cinesi, che dal 1° gennaio sarebbero dovuti passare dal 10% al 25%.
  2. Pechino si impegna entro 90 giorni a rivedere la cornice dei rapporti commerciali sino-americani.

Nei disegni di Trump, i negoziati fra Washington e Pechino dovrebbero servire per conseguire due obiettivi:

  1. il riequilibrio della bilancia commerciale per mezzo dell’incremento delle importazioni della Cina di prodotti americani agroalimentari, energetici e manifatturieri;
  2. una ristrutturazione dei rapporti commerciali, basata sulla progressiva sistemazione di diverse divergenze: il trasferimento obbligatorio di tecnologia da parte delle compagnie Usa operanti in Cina; la tutela della proprietà intellettuale; l’apertura del mercato cinese, in particolare in campo finanziario; l’interruzione dei furti cibernetici.

I colloqui Trump-Xi hanno riaperto l’affare Qualcomm-Nxp nel settore dei semiconduttori, che Pechino aveva bloccato lo scorso luglio scorso dopo l’annuncio di Trump sui dazi.

Verso un nuovo corso dei rapporti sino-americani

La politica muscolare di Washington ha costretto Pechino ad accettare un negoziato che, stante l’attuale squilibrio dei rapporti commerciali sfavorevole agli Usa, potrebbe portare ad una stagione di concessioni da parte cinese.

È presto per dire quale sarà l’esito del round di negoziati. Nondimeno, sembra profilarsi un nuovo corso dei rapporti sino-americani. Infatti, un riequilibrio dei rapporti commerciali potrebbe condurre ad un miglioramento dei rapporti politici Usa-Cina, essenziali per la stabilità globale.

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