Italia-Turchia, fine degli ammiccamenti alle dittature

Con l'attacco a Erdogan, Draghi batte diversi colpi. Si candida a leader Ue nell'imminenza di importanti cambiamenti politici nel Vecchio Continente. Ricorda agli Usa che l'Italia ha credenziali democratiche che la Turchia non è in grado di fornire ed è un partner più sintonico e affidabile.

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Rispondendo alla stampa sul Sofagate, il presidente del Consiglio Draghi ha sferrato un duro attacco al presidente turco Erdogan, sancendo di fatto l’avvio di una crisi diplomatica fra Roma e Ankara.Italia Turchia

Così il premier italiano: “con questi dittatori di cui però si ha bisogno di collaborare, o meglio di cooperare, uno deve essere franco nell’esprimere la differenza di vedute, di comportamenti, di visioni, ma pronto a cooperare per gli interessi del proprio paese”.

Crisi diplomatica fra Roma e Ankara

Dopo un’esternazione di questa rudezza, gli osservatori dell’attualità internazionale si attendevano una reazione da parte della Turchia. Che infatti è puntualmente arrivata.

Quella di Draghi è stata una presa di posizione dura. E, volendo, anche inconsueta, se letta attraverso il prisma della cultura diplomatica italiana, tradizionalmente cauta nelle esternazioni.

L’attacco di Draghi a Erdogan

Se è vero che le parole scelte da Draghi in alcuni osservatori hanno creato sorpresa, va considerato che l’attuale Presidente del Consiglio vanta un’indiscussa esperienza internazionale. Ha familiarità con i riti delle cancellerie. Il suo percorso è stato improntato a rigore e riserbo. Le sue esternazioni ponderate, sia per la tempistica sia in vista dei loro effetti.

È ancora nella memoria collettiva il “whatever it takes” con cui nel 2012 l’allora governatore della Bce diede un fermo “altolà” alla speculazione contro l’euro. E mise spalle al muro la Germania e i suoi satelliti, ostili al quantitative easing.

Appena arrivato a Palazzo Chigi, Draghi ha scelto come consigliere diplomatico l’ambasciatore Luigi Mattiolo, funzionario di esperienza ed equilibrio. In precedenza, Mattiolo è stato ambasciatore a Berlino, Tel Aviv e Ankara. Un alto funzionario, quindi, che conosce bene la Turchia e la sua politica.

Italia e Turchia, da dieci anni in rotta di collisione

Alla luce di queste circostanze, è ragionevole ritenere che Roma avesse messo in conto la ritorsione di Ankara. Pertanto, per comprendere questa crisi diplomatica occorre considerare il quadro politico regionale delineatosi negli ultimi dieci anni.

Un quadro di progressiva divergenza fra Italia e Turchia, le cui direttrici di azione hanno finito per entrare in rotta di collisione in quadranti di comune interesse.

Complice anche l’apparente insipienza della classe politica italiana e la conseguente, gregaria politica estera degli ultimi anni, questa dinamica si è tradotta in un riequilibrio dei rapporti italo-turchi a svantaggio di Roma.

Le divergenze di politica estera fra Roma e Ankara

Da un lato, in modo progressivo l’Italia si è indebolita in aree di tradizionale influenza. In primis in Libia, ma anche nei Balcani, nel Mediterraneo orientale e nel Corno d’Africa.

Dal canto suo, abbandonato il tradizionale equilibrio, la Turchia ha adottato una muscolare politica di potenza. In particolare, Ankara ha approfittato delle incertezze di Roma per conquistare posizioni proprio in quelle regioni – un tempo sotto il dominio dell’Impero ottomano.

Era prevedibile, sotto il profilo politico, che nel medio termine questa dinamica finisse per diventare un irritante nelle relazioni italo-turche, tradizionalmente molto buone.

Immigrazione, investimenti, idrocarburi, le tre “i” al cuore della politica italiana in Libia

Per l’Italia la Libia è più che mai uno scacchiere di interesse strategico. Logico, quindi, che l’ingerirsi di altre potenze negli affari libici costituisca una sfida agli interessi di Roma.

  1. Dalle coste libiche partono i barconi dei trafficanti di immigrati clandestini. Se un’altra potenza si assicurasse il controllo di questi flussi – e quindi la capacità di regolarli – si doterebbe di un potente strumento di pressione nei confronti di Roma.
  2. L’Italia ha in Libia ingenti investimenti, in particolare in campo energetico, dove l’Eni controlla il 45% circa dell’intera produzione libica di idrocarburi, e infrastrutturale.
  3. Anche se in misura minore rispetto al passato, gli idrocarburi libici soddisfano una consistente quota del fabbisogno energetico italiano. Controllare i giacimenti, gli impianti e le pipelines libiche equivale quindi ad avere un dito sul tasto “on/off” dell’economia italiana.

Controllare la Libia significa tenere un coltello alla gola dell’Italia

Quest’ultima, in particolare, è una vulnerabilità dell’Italia molto più accentuata rispetto all’epoca di Gheddafi. Infatti, il Rais non aveva interesse a brandire l’arma energetica per fare pressioni su Roma. Essendo l’energia l’unico cespite di Tripoli, Gheddafi – che fondava il suo potere sulla distribuzione dei dividendi dell’export di idrocarburi fra le diverse tribù che compongono la popolazione libica – avrebbe di fatto segato il ramo su cui sedeva.

Ben più grave sarebbe lo scenario del comparto oil & gas libico sotto il controllo di una potenza esterna. Quest’ultima sarebbe infatti nelle condizioni di esercitare pressioni sull’Italia senza rischiare di doverne pagare il prezzo.

In questa cornice, la presenza in Libia di consistenti unità militari turche, anche irregolari, costituisce una lama puntata alla giugulare dell’Italia. Un incubo geopolitico e nel contempo una minaccia alla libertà di azione internazionale che il nostro paese non può consentire.

Altri irritanti: Balcani, Mediterraneo orientale, Corno d’Africa

In questi anni, l’influenza italiana si è indebolita anche nei Balcani. In Albania, Kosovo e Bosnia-Erzegovina – anch’esse un tempo province della Sublime Porta – la Turchia esercita una crescente influenza politica, militare, culturale e religiosa. Quest’area non è solo nevralgica per controllare i flussi migratori verso l’Europa. È anche una regione dove l’Italia ha in piedi agende politiche congiunte, missioni militari, progetti di cooperazione e ingenti investimenti, che potrebbero essere messi a rischio dal rafforzamento turco.

Alla luce della conformazione delle sue acque territoriali, la Turchia è il paese più sfavorito nella partita della delimitazione dei giacimenti di idrocarburi nel Mediterraneo orientale. Questo spiega la sua assertività sul problema della definizione delle frontiere marittime e l’impiego aggressivo della sua marina militare. È in questa cornice che nel febbraio del 2018 unità della marina militare turca hanno costretto la nave italiana Saipem 12000 a lasciare le acque vicino Cipro, nonostante vantasse un diritto di esplorazione.

Parimenti complessa per Roma è la situazione nel Corno d’Africa. Se il crescente peso della Turchia in quello scacchiere è diventato palese con l’episodio della liberazione di Silvia Romano, esso è nondimeno il risultato di una meticolosa politica di attenzione, concretizzatasi in accordi in materia di sicurezza, cooperazione militare e cooperazione allo sviluppo con diversi paesi della regione.

L’Italia di Draghi vuole essere protagonista nell’Unione europea

Oltre che alla Turchia, è ipotizzabile che Draghi abbia voluto mandare un messaggio a una platea più ampia. I primi destinatari sono nell’Unione europea. Come attore internazionale, l’Ue è uscita ammaccata dal Sofagate, sia sul piano dei risultati politici sia su quello della reputazione. Inoltre, Germania e Francia non hanno voluto prendere le parti dell’Ue nella disputa, lasciando libero uno spazio politico che Draghi ha immediatamente occupato.

Il segnale di Draghi appare indirizzato tanto alle cancellerie europee quanto alle istituzioni di Bruxelles: chi teme che l’Ue soffra un’assenza di leadership volga lo sguardo all’Italia. Nel Vecchio Continente molti nodi politici stanno per venire al pettine. Fra questi, la fine della parabola politica della Merkel nel 2021 e le presidenziali in Francia nel 2022, dove Macron appare in difficoltà. Sullo sfondo, i persistenti squilibri sistemici che deprimono l’economia Ue a guida tedesca, sempre più insostenibili con il protrarsi della crisi. Non a caso, proprio su questo fronte, Draghi ha già battuto un colpo ribadendo l’esigenza di politiche economiche espansive: una linea che potrebbe trovare molti alleati in Europa.

Le prospettive di un ruolo da leader europeo per Draghi sono dunque concrete. Soprattutto se nel 2022 dovesse salire al Quirinale, ciò che farebbe di lui il dominus della politica italiana per un settennato, consolidando la sua proiezione internazionale.

Segnale agli Usa, l’Italia è un partner più affidabile della Turchia

Con la sua esternazione, il capo del governo sembra anche aver voluto allineare l’Italia alla visione di Biden. Un allineamento valoriale, prima ancora che politico, ancorato all’idea-guida della riaffermazione degli Usa come avanguardia della democrazia liberale. Un messaggio implicito agli Stati Uniti: l’Italia ha credenziali democratiche che la Turchia non è in grado di fornire. Per i disegni di Washington, Roma è un partner più sintonico e affidabile di Ankara, perché ne condivide i valori.

È in questa prospettiva che vanno interpretate alcune recenti prese di posizione dell’Italia. Il cambio di rotta con la Cina rispetto al Conte bis, sia sul piano della collaborazione in campo tecnologico, sia in materia di diritti umani. Oppure, venendo alla Russia, la vicenda dell’arresto del capitano Walter Biot.

In questa dinamica rientra l’implicito obiettivo di Draghi di ottenere un assenso americano al rilancio della politica libica dell’Italia. E, magari, anche un vigoroso invito di Washington ad Ankara a “cooperare” – per riprendere le parole del premier italiano – ai fini di una responsabilità condivisa in aree di interesse comune, non a destabilizzarle. Ecco perché, in definitiva, le dichiarazioni del capo del governo, anche alla luce della sua recente missione a Tripoli, appaiono come un passo ponderato.

Fine degli ammiccamenti M5S-Pd alle dittature: ora è Draghi a dettare l’agenda della politica estera italiana

Infine, l’attacco di Draghi a Erdogan segna finalmente una netta rottura con gli imbarazzanti ammiccamenti del governo M5S-Pd a dittature come quella cinese.

In sostanza, con quell’espressione “dittatore” Draghi ha classificato la Turchia come un membro di quella comunità di autocrazie contro le quali la Casa Bianca ha promesso di rilanciare una politica di contrasto tous azimuts. Così facendo, sancisce una radicale discontinuità con l’ambigua politica estera di Conte.

Con Conte temporaneamente fuori dai giochi politici, sarà interessante osservare come si inserirà il Ministro degli Esteri Di Maio – per il quale con la gestione Conte non erano mancate le occasionali frizioni – in questo nuovo quadro ispirato all’assertività internazionale di Draghi.

 

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