Dopo la conferenza di Palermo sulla Libia, appare utile proporre alcune riflessioni circa i suoi possibili seguiti. Al riguardo, riveste interesse l’intervista rilasciata a ilsussidiario.net da Paolo Quercia, esperto di affari internazionali e sicurezza e direttore del think tank Cenass.
Ad avviso di Diplomazia italiana, le considerazioni di Paolo Quercia sono condivisibili per diverse ragioni.
L’Italia deve perseguire il suo interesse nazionale da sola
Se, per ora, non è possibile parlare di risultati, è un dato di fatto che la Conferenza di Palermo ha permesso all’Italia di riprendere l’iniziativa sul dossier libico, arginando pericolose derive che permetterebbero alla Francia di guadagnare posizioni nel paese.
L’Italia deve perseguire il suo interesse nazionale da sola. Non può attendere che siano altri attori a toglierle le castagne dal fuoco: “le alleanze storiche ed immutabili non ci sono più – osserva Quercia – ed ogni singolo passo va fatto con le nostre forze, scegliendoci alleanze e convergenze di volta in volta”.
Beninteso, questo non significa che il nostro paese debba agire senza tenere conto degli altri attori. Anzi. L’azione dell’Italia in Libia sarà tanto più incisiva quanto più riuscirà a tessere una tela di alleanze, sia a livello locale, sia a livello internazionale.
Per ottenere questo risultato, l’Italia deve fare una meticolosa operazione diplomatica. Come dice Paolo Quercia “questo è il senso della Conferenza di Palermo: Italia, Egitto, Russia, Tunisia, Algeria, Francia se mettono da parte le loro differenze possono dare un ruolo determinante alla stabilizzazione della Libia”.
In Libia l’Italia deve fare un’azione diplomatica a tutto campo
Primo: identificare con precisione i propri interessi in Libia (gli investimenti nel settore dell’energia e il controllo dell’immigrazione) e gli strumenti più idonei per perseguirli.
Secondo: costruire una campagna diplomatica per rappresentare a tutti gli attori-chiave che la posizione italiana è coerente con l’interesse della Comunità internazionale di avere una Libia stabile.
Terzo: Roma deve mettere a sistema la propria articolata rete di contatti ed alleanze sul terreno in Libia. L’obiettivo è convincere le diverse realtà tribali della Libia a ragionare sull’interesse nazionale del proprio paese, che è del tutto armonico con quello italiano, mettendo da parte i propri interessi particolari.
Quarto: dissuadere la Francia dal minare le posizioni italiane. Innanzi tutto, dando il segnale che le radici dell’influenza italiana in Libia sono profonde e ramificate. E quindi che ogni tentativo di reciderle comporterà un impegno lungo e costoso, a fronte di un successo incerto. In questa prospettiva, l’Italia deve allargare la frattura fra la Francia e la Comunità internazionale provocata dalla scelta di Macron di sostenere Haftar e non Serraj.
Il risultato di Palermo è che Serraj e Haftar si sono parlati
In generale, è positivo che l’impegno italiano abbia messo allo stesso tavolo Serraj e Haftar.
Come già si è detto, di rado vertici e conferenze producono risultati concreti nell’immediato. E quando questo avviene si tratta di solito del risultato di processi, percorsi e decisioni antecedenti che in quelle occasioni vengono ratificate.
Tuttavia, vertici e conferenze hanno il positivo effetto di mettere insieme i decision makers internazionali. Di favorire la conoscenza reciproca e l’instaurazione di rapporti di fiducia, che possono facilitare la risoluzione di situazioni complesse.
Le risorse della Farnesina sono insufficienti: di chi la colpa?
La Conferenza di Palermo è anche il risultato di un grande impegno del ministero degli Affari Esteri. Al riguardo, Paolo Quercia ricorda che da troppi anni lo strumento diplomatico italiano non dispone di risorse sufficienti per difendere gli interessi nazionali. La Conferenza di Palermo – osserva – è stata organizzata “con una macchina diplomatica che da vent’anni ormai viene umiliata e costantemente privata delle risorse economiche“.
Un’accusa dura, ma fondata. Quercia ha avuto delicati incarichi alla Farnesina. Ne conosce le articolazioni, le carriere, i meccanismi di funzionamento e la “cultura aziendale”.
Del resto, i dati ufficiali sono impietosi. Negli ultimi 20 anni, il bilancio degli Esteri è crollato. Esso è ormai una frazione di quelli dei paesi con i quali l’Italia ha l’ambizione di confrontarsi. È, questa, una causa di crescente, diffuso malessere in seno alla carriera diplomatica, sfociato di recente anche in casi di dimissioni eccellenti.
Una grave situazione, da molto tempo inutilmente denunciata dal Sndmae, il sindacato di categoria dei diplomatici. Ancora nelle scorse settimane, il presidente del sindacato, De Luigi, ha pubblicato una preoccupata lettera sull’argomento.
Questa dinamica di progressivo depotenziamento del ministero degli Esteri ha diverse cause.
La carriera diplomatica deve tornare a difendere la politica estera italiana
La prima risiede nel sostanziale disinteresse della politica per la diplomazia. Un atteggiamento provocato dalla scarsa conoscenza delle sfide globali che non ha permesso alla politica di comprendere che il mondo del dopo Guerra Fredda è più instabile e pericoloso.
Dunque, sfide globali che – come osserva Quercia – indicano con sempre più chiarezza agli Stati che per difendere i loro interessi devono attrezzarsi per agire da soli. E quindi investire per rafforzare i loro strumenti diplomatici.
La seconda consiste nella disarmante incapacità della carriera diplomatica di rappresentare questo interesse alla classe politica.
Le ragioni sono molteplici. Un distorto senso dello Stato che tappa la bocca a chi dovrebbe illustrare alla politica il disastroso stato della Farnesina. O la scelta di alcuni di sacrificare l’interesse collettivo di avere un efficace strumento diplomatico in cambio di promozioni e vantaggi di carriera.
Chi conosce la Farnesina dall’interno riconoscerà queste dinamiche.