Il premier britannico Boris Johnson ha ottenuto dalla Regina Elisabetta II di sospendere il Parlamento. Quello che ad alcuni sembrava un bluff si è risolto con l’interruzione delle attività di Westminster fino al prossimo 14 ottobre. La “prorogation” avverrà pochi giorni dopo il rientro dei deputati dalla pausa estiva, qualche settimana prima della scadenza del 31 ottobre 2019. Johnson punta a far tenere un discorso della Regina il 14 ottobre, giorno in cui la monarca dovrebbe presentare i futuri piani governativi.
Difficilmente i parlamentari inglesi disporranno di tempo per bloccare il “no deal”
La notizia ha scatenato dure reazioni dalle opposizioni. E non solo.
Dal leader laburista Jeremy Corbyn, al primo ministro scozzese Nicola Sturgeon, al premier per il Galles, Mark Drakeford, allo speaker della Camera dei Comuni John Bercow, gli oppositori di Johnson si sono adoperati a definire la scelta come un oltraggio, addirittura una minaccia per la democrazia.
Le opposizioni perdono la testa: Johnson come Maduro
L’accostamento a Maduro viene spontaneo, se si ripensa a quando la Corte suprema venezuelana esautorò il Parlamento che le elezioni del 6 dicembre 2015 avevano messo in mano all’opposizione. Una mossa che peraltro lo stesso Johnson, allora ministro degli esteri di Sua Maestà, aveva aspramente criticato. Tornando ancora più indietro nel tempo, su Boris incombe anche il precedente di Carlo I, che nel XVII secolo scatenò la guerra civile inglese. E alla fine si giocò la testa.
Eppure la testa sembrano averla persa i media mainstream europei, compresi gli italiani. La situazione sul Tamigi è ben più complessa. E la sua valenza politica va esaminata attraverso lenti diverse, inclusa quella dell’interesse nazionale. Di fatto, Johnson ha coerentemente portato avanti la sua strategia. Da quando è uscito dal governo May fino al suo avvento a Downing Street egli ha puntato diritto verso un “no deal”, piuttosto che ad un accordo con la Commissione Ue che comportasse una Brexit sanguinosa per il Regno Unito.
Adesso il “no deal” diventa la carta più forte sul tavolo con Bruxelles
La forza negoziale di Johnson è andata via via crescendo con l’avvicinarsi del fatidico termine del 31 ottobre. Le minacce della Commissione sono un’eco lontana. Da giorni il primo ministro britannico andava dicendo che il suo obiettivo era ed è quello di arrivare a un nuovo accordo. Ma per far ciò, Johnson ha sempre sbandierato il rischio di un’uscita traumatica dall’Ue. Un’eventualità che potrebbe sì mettere in difficoltà, nel medio periodo, Londra, ma che costerebbe a Bruxelles non meno di 39 miliardi di euro, che il Regno Unito ha dichiarato non essere obbligata a pagare in caso di “no deal”.
Questa è una carta importante nella mano di Johnson, e alcuni a Westminster stavano lavorando per ridurne il valore. Non è un caso che la mossa del primo ministro sia avvenuta il giorno dopo l’accordo tra le opposizioni per votare una legge che spostasse la scadenza della Brexit oltre il 31 ottobre.
Tre opzioni in mano al primo ministro britannico
Ciò detto, dopo il discorso della Regina del 14 ottobre è previsto un voto di fiducia, il quale potrebbe far cadere il disegno del premier britannico, con la prospettiva del voto.
Le opzioni in mano a Bojo ministro sono ora tre:
- ottenere dall’Ue un nuovo accordo – l’opzione che dice di preferire;
- il “no deal”;
- riproporre al Parlamento il deal di Theresa May. Questa sarebbe l’extrema ratio. La “prorogation” è un istituto che fa tabula rasa di tutti i provvedimenti pendenti. E’ come se ci si ritrovasse con un Parlamento rinnovato, pur nella sua configurazione attuale. Sembrerebbe che Johnson sia pronto a sostenere ognuna delle tre opzioni.
Non dimentichiamo le minacce dei burocrati Ue
Il colpo di mano di Bojo riequilibra i rapporti di forza del Regno Unito con l’Unione europea, frustrando così i disegni delle quinte colonne londinesi dell’Ue. E’, soprattutto, una mossa che potrebbe dirsi figlia della scelta a monte della Commissione europea di puntare ad una Brexit dolorosa per l’Inghilterra. Un’uscita lacrime e sangue, se Westminster non avesse approvato l’accordo negoziato fra la allora premier May e il negoziatore Ue Barnier.
Difficile dimenticare le dichiarazioni dei funzionari e dei politici europei che molto apertamente auspicavano una soluzione di tipo cartaginese. Anche con il palese intento di spaventare e quindi dissuadere possibili imitatori.
Dichiarazioni arroganti, in contrasto con le più elementari regole del bon ton diplomatico. E, a ben vedere, più il segnale di una debolezza strutturale dell’Ue che non di una sua posizione di forza negoziale. Che progetto di unione fra Stati può mai essere quello che non prevede procedure di uscita disciplinata e amichevole dei suoi membri in caso di mutazione radicale del quadro politico? Perché esattamente questo è stato il voto del popolo inglese a favore della Brexit.
Una Ue debole, ottusa e colpevole di incapacità negoziale
Il punto è che la storia non ha insegnato niente ad alcuni politici e alle eminenze grigie di Bruxelles. Davanti alle sfide della grande politica si rivelano per quello che sono: dei fantasmi dalle qualità molto al di sotto delle loro responsabilità. Nel corso della storia gli inglesi hanno sviluppato un preciso – e stranoto – carattere nazionale che presenta evidenti tratti. Fra questi una straordinaria volontà davanti alle avversità che si riflette in una radicale avversione ad ogni forma di capitolazione. Andrebbe ricordato a qualcuno a Bruxelles e anche in alcune cancellerie europee.
È evidente, dunque, che con la sua scelta, Bojo si sta dando gli strumenti per arrivare ad una Brexit in un contesto di minore vulnerabilità rispetto alla controparte bruxellese, che ha goffamente perseguito l’obiettivo politico sbagliato: danneggiare l’Inghilterra per scongiurare la possibilità che altri paesi fossero tentati di imitarla, invece di negoziare un’uscita amichevole, corredata da un accordo di collaborazione strutturale. Che, magari, lasciasse a Londra la porta socchiusa.
Duole dirlo, l’ennesima scelta, quella dei decision makers brussellesi sulla Brexit, che contribuisce a delegittimare l’Unione Europea e le sue istituzioni.
Obiettivo raggiunto: limitare l’efficacia delle quinte colonne dell’Ue
Il congelamento di Westminster, per molti versi, risponde anche ad un obiettivo tattico che in Italia molti hanno difficoltà a capire, tanto sono collusi con Bruxelles, con capitali straniere e finanza internazionale: pur nel rispetto delle regole costituzionali inglesi, la mossa di Johnson serve a limitare l’efficacia della guerriglia politica delle quinte colonne Ue sul Tamigi.
Bene farebbero i sovranisti italiani a studiare un poco gli amici britannici, il loro carattere e il loro pragmatismo davanti alle sfide politiche.