Da dove soffia il “vento dell’anti-politica”? Da filosofie che della dissoluzione della politica in senso autentico, come partecipazione comunitaria e decisione collocata, hanno fatto la causa principe del loro agire. Già Guillaume Faye negli anni ’80 aveva messo in guardia dalla tendenza comune ai sistemi liberali di esaurire il ruolo del politico a vantaggio di un eterno dibattito tra individui portatori di diritti.
Mettere un argine all’anti-politica o scomparire dal contesto globale
La realtà italiana degli ultimi anni è tendenzialmente in ritardo rispetto alle dinamiche mondiali. L’epoca del Berlusconi vincente ha per certi versi tracciato la via dei populismi che oggi sono in corso di normalizzazione, ma oggi l’Italia non è più l’anticipatrice di tendenze politiche e sociali determinanti: è finita sempre più ai margini delle scelte fondamentali europee e mondiali.
Ciò è accaduto per una serie di fattori esterni ed interni che adesso sembrano configurare un cambiamento considerevole della realtà circostante. Per tornare a essere parte attiva della storia futura l’Italia dovrà quindi ricalibrare il proprio operato secondo l’andamento dei tempi, senza lasciarsi trascinare.
Come già parecchi decenni orsono anticipava Carl Schmitt, le guerre mondiali hanno spalancato le porte all’epoca della politica dei grandi spazi. Il politologo Samuel Huntington ha parlato, con Spengler e Toynbee, di ritorno delle civiltà. Politica dei grandi spazi significa che le piccole identità etniche e nazionali devono e dovranno porsi in ottica funzionale e solidaristica all’interno di una più ampia composizione di civiltà se vorranno sopravvivere ai cambiamenti in corso.
Talune posizioni anti-europee, che vorrebbero rifarsi alla “Brexit” o dar corso a qualche forma di isolazionismo reazionario, non tengono in debito conto le dinamiche in corso e in ultima analisi non fanno che andare nel senso di un indebolimento della centralità europea tanto gradito ai competitor mondiali, USA su tutti.
Il più grande pericolo che minaccia il ruolo attivo degli europei e degli italiani nel mondo è il cosiddetto “vento dell’anti-politica” che non si agita per dare nuovo lustro alla vita politica, ma per azzerarla completamente in nome del ruolo centrale dell’opinione pubblica. È in questa ottusa tensione alla moralizzazione e alla liberalizzazione da social network che la politica reale arretra fino ad azzerarsi.
Già Guillaume Faye negli anni ’80 aveva messo in guardia dalla tendenza comune ai sistemi liberali di esaurire il ruolo del politico a vantaggio di un eterno dibattito tra individui portatori di diritti. Secondo tale tendenza, la politica, intesa come continuo cambiamento e dunque rischio storico, deve scomparire per sempre secondo la visione egualitaria della fine della storia. Essendo il motore principale degli avvenimenti storici, la politica deve sparire. Il presupposto è che non saranno più necessari cambiamenti e nuove sfide, se si saranno raggiunti benessere e sicurezza, se tutti avranno ciò che desiderano e se le differenze non esisteranno più.
È chiaro che esistono movimenti che della dissoluzione della politica in senso autentico, come partecipazione comunitaria e decisione collocata, hanno fatto la causa principe del loro agire. Tant’è che non sono neppure degli uomini a decidere i programmi politici, ma degli agglomerati astratti e impalpabili. Tutto assume i contorni del sogno, niente risulta definito, ma tutto è liquido e indifferente.
Il tentativo del tutto generalista di raccogliere consenso andando ad attingere indifferentemente a destra e a sinistra richiede un appiattimento e una semplificazione che sulla lunga distanza provoca un impoverimento della vita politica. Come ha giustamente sottolineato Alain De Benoist: «il prezzo del “consenso” è la diserzione civica». All’astensione, cioè all’assenza di identificazione politica, fa da contraltare la ricerca di appartenenze forti (religiosa, etnica, tribale ecc.) che rendono sempre più instabile e frammentata la comunità dei cittadini.
Solo attraverso la politica in senso autentico i popoli realizzano la propria storia. La sfida degli anni a venire consisterà anche nel recupero del politico alla sua pienezza.
Nella politica mondiale che si va configurando sono unicamente le civiltà continentali a poter svolgere un ruolo attivo e determinante. La grande forza del successo e dell’influenza planetaria degli Usa consiste precisamente nel fatto di essere una civilizzazione continentale. Che questo sia discutibile sul piano filosofico, etico e identitario nulla cambia delle condizioni su cui si è fondata la potenza a stelle e strisce.
Le scelte politiche di oggi sono nelle mani di élite totalmente svincolate dalle richieste popolari. Ciò significa che nella grande maggioranza dei casi la funzione culturale delle civiltà resta solo potenziale. Se a rigore non si può oggi parlare di civiltà mondiali, resta l’evidenza di una crescente esigenza di identificazione e appartenenza che abbia piena espressione storica e che viene parzialmente utilizzata da taluni partiti a scopi elettoralistici ma senza alcuna visione di lunga durata.
È su questo piano – territorialmente ampio, ontologicamente profondo e storicamente lontano – che si giocherà la partita di domani. Quelle nazioni e quegli Stati che sapranno trovare il minimo comune denominatore che fornisca potenza e progettualità saranno quelli che potranno prolungare attivamente la propria storia. Non è un caso che oggi acquistino sempre maggior rilevanza quelle potenze economiche e militari che si collocano in posizione centrale rispetto agli appartenenti alla medesima civiltà. È il caso di Cina e Germania, che si collocano all’epicentro di interessi continentali ma talvolta appaiono rigidi e incapaci di quelle intuizioni che possono creare le condizioni per le svolte epocali.
Per questo sono necessarie quelle culture profonde che, affondando le proprie radici nella grande storia, hanno una ricchezza creativa sedimentata ma mai del tutto esaurita. Attraverso una riscoperta dell’heideggeriana autenticità dell’essere di una civiltà, risalendo all’origine viva, si può dunque trovare quella sorgente da cui sgorga la potenza attorno a cui si coagula una vera civiltà di mezzo.
La politica internazionale è la chiave della politica statale. Agendo nel teatro mondiale, una nazione o si afferma come protagonista, o arretra all’ombra dei grandi. La centralità di una potenza non è mai decisa per sempre. In una sfera il centro è ovunque, pertanto sono i fulcri di potenza storica a fungere da epicentro della storia mondiale.
Ecco quindi il ruolo di quelle che si possono chiamare civiltà di mezzo, le quali, in potenza, rimpiazzano ogni astrattismo con la politica dei fatti, collocata nel reale.
di Francesco Boco